La Maestra

21 August 2023

La Maestra

Quando la ripenso la prima cosa che mi viene in mente sono i suoi denti, quelli dell’arcata inferiore, erano gialli, un po’ radi fra di lori,  sembravano dei parallelepipedi rettangoli, belli spessi, e in cima, invece di averli pari, c’aveva delle fosse, come quando l’acqua, gocciolando negli anni sempre nello stesso punto di una roccia, ci scava la fossa, e si forma la pozzanghera, uguale, uguale, lei c’aveva  delle piccole pozzanghere in cima ai denti inferiori.


A metà mattina, mangiava sempre le fette biscottate tonde, e quando si avvicinava a qualcuno di noi per vedere il quaderno,  si poteva vedere  la poltiglia delle fette biscottate  che gli restava nelle pozzanghere dei denti, c’era da sperà di un avere sbagliato nulla, perché se e le veniva in mente di parlare per farti notare l’errore:  SPAM! Come nei vulcani che eruttano, le partivano i lapilli di poltiglia dalla bocca, si posavano sui quaderno, e lei , con disinvoltura , ci metteva sopra il polpastrello del suo dito indice, e trascinava il lapillo fino fuori dalla pagina del quaderno, lasciando , come se ci fosse passata una lumaca ,una frenata giallina sul foglio.


Era una donna, un po’ robusta, senza punto vita , tipo tronco, portava sempre delle gonne al ginocchio, di panno o lana grigie, e aveva l’attaccatura delle gambe, distante, un po’ come quando i bimbi piccoli disegnano le gonne a triangolo e le gambe attaccate ai due vertici della base, a lei le gambe le uscivano dalla gonna, non centrali, ma dai lati.


Sopra indossava dei gilet di lana grossa, quella un po’ pelosa, tipo angora, sempre sui toni del grigio, dovevano essere fatti a mano, ne aveva diversi ma tutti simili, forse se li faceva da sola, anche se non ce la immaginavo a far la maglia.


Aveva un passo pesante e lungo, un po’ come quando si cammina in montagna, ho sempre pensato fosse per colpa delle gambe lontane una dall’altra.


Sempre per rimanere in armocromia, anche i suoi capelli erano grigiastri, li portava piuttosto corti, un po’ mossi, quando il tempo era più umido le si appesantivano, le veniva una specie di frangia bombata, subito sotto la frangia, saltavano agli occhi i suoi occhialoni di plastica spessa sempre grigiastra con le lenti un po’ fumè.


Era severa, e urlava parecchio, ma era una donna molto avanti per i tempi, io me la ricordo già vecchia, non ho idea di quanti anni avesse , ma so che ci portò noi in quinta e andò in pensione.


Aveva una grande passione per il suo lavoro e non sopportava le diversità economiche, quindi per farci sentire tutti uguali, si inventò la cooperativa.

Eravamo 12 bambini in classe, tutti i mesi entro il 10 dovevamo portare 500 lire, e ogni bimbo doveva, per un mese, fare la cassa, tenere un quaderno aggiornato con le entrate e le uscite e la busta con i soldi.

I soldi che raccoglievano ,servivano per comprare penne e quaderni, tutti uguali, non esisteva in classe mia che un bimbo avesse i quaderni di Hello Kitty e l’altro della Coop, lì lo avevamo tutti uguali e di carta rigorosamente riciclata.

Era il 1982, e nella maggior parte delle scuole non si parlava ancora di deforestazione, e buco nell’ozono, ma la mia maestra era una delle poche che se ne occupava e preoccupava cercando di sensibilizzarci.


Ricordo che, forse in terza elementare, si cominciò a fare la raccolta della carta, una volta a settimana portavamo da casa un pacco di giornali vecchi rilegati con lo spago, e li riponevamo nei bagni , c’erano un paio di bagni in disuso dove ci accumulavamo la carta vecchia, quando erano pieni si organizzava una gita col pulmino alla cartiera di Valdicastello.

Arrivati  là, mettevamo la nostra carta su una grossa bilancia, e la cartiera in cambio della carta ci dava i soli, fu così che smettemmo di portare le 500 lire ogni mese, e si iniziò a comprare il materiale scolastico con i soldi della vendita della carta .

Era una gita interessante quella alla cartiera, perché gli operai ci spiegavano ogni volta un passaggio in più del riciclo, mi ricordo che c’erano delle grosse vasche di pietra dove la mettevano a mollo, e la macinavano, rendendola poltiglia, la schiarivano, probabilmente con degli agenti chimici e poi la pressavano e spianavano, ricavandone dei nuovi fogli, pronti per essere tagliati ed avere una nuova vita.


Ci faceva anche fare l’orto in classe, dovevamo portare dei semi da casa , e a scuola si faceva il processo di germinazione, con cotone umido per giorni, poi la semina in piccoli vasetti.

Ovviamente i miei  seccarono tutti, io il pollice verde non ce l’ho mai avuto, anche ora compro i fiori e , fra che mi pisciano i gatti, fra che mi scordo di dargli l’acqua, c’ho i vasi con la gramigna, un ci campa altro che quella.

Solo una volta, durante il primo lockdown del marzo 2020, da un vaso pieno di cacate di gatto , mi c’è uscito un finocchio, e anche bello grosso, solo che mi faceva schifo mangiarlo, non mi ricordo se ho lasciato morire anche quello o se la mi mamma, l’ha svelto e  trasferito giù nell’orto a purificarsi. Spero di averlo fatto marcire nel vaso, perché al ricordo di tutte quelle cacate di gatto che lo sormontavano, il pensiero di averlo potuto mangiare inconsapevolmente, mi fa veni le rutte.



A proposito di questa cosa, mi viene in mente il mi zio, lui faceva l’orto e ogni tanto per concimare ci tirava il “bottino”, cioè il liquame che era nel pozzo nero di casa sua. Ero piccina, avrò avuto 5 o 6 anni, lo osservavo mentre apriva il coperchio del pozzo ci infilava una sistola, l’agganciava a un motorino da dove ne ripartiva un’altra diretta nell’orto, avviava il motorino e il “bottino” iniziava a sgorgare nei solchi dell’orto. Ad un certo punto vedo uscire dei pezzi di carta bianchi, dal puzzo che “aggolava” capii che quella carta bianca che usciva  era cartaigenica, e gli dissi:


-Oh zio, ma che schifo!!!


E lui, come se nulla fosse, mi rispose:


-“ E che voi che sia per una CARTETTA ! “


Lì rimasi senza parole, c’erano litri  di merda, e lui si preoccupava per la carta.

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